Da “Psichiatria oggi”, numero di luglio-dicembre 2023, articolo di Renato Mantovani avvocato di Milano.
“Un’interessante sentenza del Tribunale di Pisa del settembre 2023, ha ribadito con chiarezza che, quando si procede al ricovero di un paziente, la principale obbligazione che sorge a carico della struttura sanitaria comporta, oltre a prestare le cure più appropriate, la tutela del paziente, con una adeguata e diligente sorveglianza nel corso di tutto il periodo di degenza. L’art. 1176 comma 2 del codice civile stabilisce infatti che, nell’adempimento di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo al tipo di attività posta in essere. Secondo la norma, il paziente ricoverato è da considerarsi come un “soggetto debole” e, pertanto, la diligenza richiesta deve eguagliare standard particolarmente elevati.”
La principale obbligazione sarebbe dunque sorvegliare che un paziente non faccia del male a sé stesso e agli altri. E riguardo al concetto di “soggetto debole” chiaramente si intende una persona incapace di poter scegliere e agire adeguatamente a causa del suo stato mentale compromesso, pertanto va accudito e monitorato come si fa coi bambini piccoli e sia gli anziani e chiunque in condizioni di vulnerabilità. Ciò è in sé per sé lineare e indiscutibile, tranne che dei piccoli “particolari” che vi espongo di seguito.
La priorità infatti data al monitoraggio attento, sembra mettere non solo in secondo piano ma anche in termini di irrilevanza quello che porterebbe una persona a fare gesti pericolosi e disordinati ed è la disperazione. Ovverosia non si parla di quello che dovrebbe essere il tema cardine, lo stato di benessere e minimo equilibrio che un paziente deve tenere e che non va solo indotto da calmanti e sedativi, perché quello è appunto solo un sedare. Non si parla dello stato di agitazione che porta una persona a fare gesti estremi, e qui voglio un attimo mettere da parte la questione della gravità delle patologie perché non si tratta di negarle ma di vedere una cosa per volta.
Come detto, si dà per scontato che il posto di ricovero psichiatrico sia luogo migliore per la gestione di pensieri anche suicidari o comunque pericolosi, tra le cose. Eppure, solo chi è stato ricoverato conosce perfettamente che grida e attacchi di rabbia da parte non dei pazienti ma del versante clinico sono all’ordine del giorno, i maltrattamenti dagli infermieri, il contenimento del tutto immotivato tante volte magari perché una persona piange sacrosantemente o vuole molto giustamente ribellarsi a quella che non è una cura ma minacce e ricatti di varia portata per far tornare la pecorella all’ovile. Questo non trova logicamente persone che credono in queste testimonianze perché spesso i familiari più che essere obiettivi e sentinelle sono i primi che per comodità fanno chiudere un figlio o un congiunto fastidioso nei reparti. Ci sono familiari che invece hanno modo di osservare e indignarsi, ma in assenza di prove passano come familiari “iperprotettivi” che negherebbero i problemi del proprio caro.
Una cosa dunque per cui finalmente raccontarla giusta, è inserire telecamere e registratori nei reparti di ricovero psichiatrico visto che lo si è finora fatto in ogni dove, anche tutelando negli asili i bambini, e se non si è provveduto bene comunque lo si sta iniziando a fare. Perché questo non dovrebbe essere applicato nei reparti di igiene mentale? Cosa avrebbe il ruolo dello psichiatra per garantire rispetto altre professioni una coscienza intatta o la sapienza di agire sempre nel migliore dei modi? Non si fa forse appello all’umanità dell’uomo, donna medico allorquando commettono errori, e dunque in ambiti dove si respira tanto dolore e tanta follia non dovrebbero in stessa misura essere attenzionati anche i ruoli esposti ogni giorno a queste energie e dinamiche non salubri?
È ESTREMAMENTE IMPORTANTE CHE IN QUESTI CONTESTI SIANO INSERITE TELECAMERE E REGISTRATORI PERCHÉ NE VEDRESTE LE MAGAGNE, COSA CHE NON FA COMODO SVELARE.
L’articolo continua:
“In base a questo basilare principio, il Tribunale ha riconosciuto la responsabilità a titolo di colpa di una struttura sanitaria per il decesso di un paziente che, dopo essere stato ivi ricoverato a seguito di un incidente stradale, si era tolto la vita.
Il paziente, durante il ricovero, aveva manifestato, sin da subito e reiteratamente, disorientamento, agitazione e confusione mentale, tanto che si era persino allontanato dal reparto presso cui si trovava ricoverato, senza nemmeno informare il personale sanitario.”
Trovo inammissibile che il problema del suicidio venga trattato solo entro il contesto clinico, affinché tutti possano lavarsene le mani, imputando alla scarsa attenzione da “fiato sul collo” il gesto quando in gran parte di casi indipendentemente dalla patologia, si tratta di persone che hanno già comunicato coi medici senza ottenere ascolto e non sapendo in quale muro sbattere la testa. Non accetto che il problema venga girato con ancora una volta una restrizione dei diritti del disabile potendo tralasciare tutta la parte di supporto che andrebbe attuato e di cui al di fuori degli ospedali nessuno sa assolutamente niente.